Giacomo non doveva “andare a morire”. Sabato, 17 settembre, l’operaio a tempo determinato della ditta che lavora nell’Ilva di Taranto, il precario, uno dei tanti ragazzi italiani dal “futuro incerto”, del “chissà se domani avrò ancora un lavoro”, del “facciamo il nostro dovere e chissà che l’azienda alla fine mi assume”, del “dico sempre sì così non sto sul naso a nessuno”, doveva andare in un centro commerciale con la sua ragazza, Ylenia. La sua futura sposa, sì il suo amore, dovevano sposarsi tra un anno, perché c’è anche questo nella vita di un precario, l’idea di progettarsi un futuro per fatti propri, la determinazione di acquistare una casa anche senza prospettive economiche certe, Giacomo aveva scelto le quattro mura in cui vivere con Ylenia e magari col tempo, se sarebbero arrivati, con i suoi figli. Alle sette Giacomo Campo viene stritolato nel rullo di un nastro trasportatore del centro siderurgico: si era rotto durante la notte e bisognava ripulirlo e la ditta lo richiama in servizio e Giacomo risponde di sì, disponibile come sempre. Da Roccaforzata, un piccolo comune del tarantino, si mette in viaggio e non immagina che quel lavoro, come la sua vita, è a tempo determinato e finirà alle 7 nel peggiore dei modi. Dietro l’incidente mortale numero 500, da quando il centro siderurgico ha iniziato a sfornare acciaio, ci sono storie di tanti “futuri” interrotti che il lavoro dovrebbe aiutare a realizzare. “Non si può morire di lavoro” dicono tutti, dal Capo dello Stato al neoassunto precario. E forse la morte di Giacomo aiuterà a capire se nel mondo dell’industria ragioni economiche non abbiano ribaltato questa elementare logica imponendo di dire “si” anche a costo della vita. Perché è stato dato il via alla pulizia del nastro prima che arrivasse una gru che l’avrebbe messo in sicurezza? Perché tanta fretta? L’Ilva è gestita da commissari governativi, quindi dallo Stato, perché le misure sulla sicurezza del lavoro, almeno stando a quel che dicono i sindacati, sono ancora carenti?
Maurizio Angelillo